Parlare di sessualità non è facile. È un tema delicato e complesso, che ancora oggi è in grado di suscitare imbarazzo e disagio nella popolazione. Figuriamoci che effetto può fare parlare di sessualità nel contesto della disabilità intellettiva (piuttosto, della disabilità in generale!). Nonostante la sua complessità, questo è un tema che va sicuramente affrontato, in quanto la sessualità è espressione fondamentale dell’essere umano, che coniuga e fa dialogare psiche, corpo e cultura.
Cosa significa Sessualità?
L’organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) definisce la sessualità come “modalità globale di essere della persona nell’intreccio delle sue relazioni con gli altri e con il mondo”. Sessualità, in quest’ottica, è anche comunicazione; la comunicazione è una dimensione che sappiamo essere spesso compromessa nelle persone con disabilità intellettiva.
Quando pensiamo al termine sessualità, inevitabilmente ciò che viene richiamato alla nostra mente è il tema della corporeità, dell’erotismo e del piacere; ma a questa componente più “fisica” se ne aggiunge un’altra, di tipo relazionale, legata al desiderio di incontro e scambio con l’altro, ai sentimenti d’amore e d’affetto. Queste due dimensioni sono intrecciate tra loro e non si può escludere l’una o l’altra.
A tenere legati tutti questi aspetti è però un’altra capacità fondamentale e peculiare dell’essere umano, che spesso troviamo deficitaria in chi soffre di disabilità intellettiva: la capacità di fare progetti, a medio o lungo termine, secondo orizzonti di senso.
“La sessualità umana necessita di progettualità, di senso, di tenerezza, di comprensione e di empatia”.
Ad ognuno la propria sessualità
La sessualità è frutto di esperienze intersoggettive; assume forme diverse in base a ciò che piace al singolo e soprattutto a seconda delle esperienze che la persona fa nel corso della vita. Il fatto di riuscire a creare la propria idea di sessualità deriva da un insieme di influenze educative e culturali a cui siamo, continuamente e sin dalla nascita, sottoposti.
Dato che spesso già dall’adolescenza chi è colpito da disabilità intellettiva ha meno contatti con i compagni al di fuori del contesto scolastico e/o familiare, anche nella fase successiva della vita spesso non sono in grado di tessere e di usufruire di una rete sociale di supporto e di relazioni amicali eguagliabile a quella dei così detti “normodotati”, con il risultato che essa sarà decisamente meno estesa e gratificante.
La diminuzione di queste possibilità ovviamente restringe anche la possibilità di sperimentarsi all’interno delle relazioni, con il risultato che essi saranno meno efficaci nel comprendere non solo l’altro, ma anche loro stessi in relazione all’altro.
La sessualità va insegnata e appresa attraverso l’affettività, la socializzazione e le relazioni sin dall’infanzia attraverso il contatto con il mondo.
Il tabù della “sessualità disabile”
Ogni volta che si parla di sessualità disabile lo si fa rivolgendosi perlopiù ai genitori e famigliari del paziente, come se questo fosse un argomento che non coinvolge direttamente la persona!
Ma come mai c’è questa tendenza?
Probabilmente perché i bambini, gli adolescenti e perfino gli adulti con disabilità in generale e intellettiva in particolare, vengono molto frequentemente classificati come soggetti asessuati, come eterni bambini, o ancor peggio la loro sessualità e affettività viene riconosciuta solo nei comportamenti problema (come ad esempio scarsa igiene personale, mancata acquisizione del senso comune del pudore sociale, interessi specifici e ossessioni-compulsioni sessuali, indifferenziata o promiscua scelta del partner, stalking, poca capacità di riconoscere o rifiutare un’interazione sessuale non gradita).
L’ideale, invece, sarebbe rivolgersi direttamente a loro. Questa soluzione comporta non pochi problemi, ma parlare con loro di sessualità, ascoltando i loro desideri, le loro difficoltà, le paure e i bisogni, aiuterebbe a comprendere i loro modi di fare esperienza, aprendo la strada ad un dialogo costruttivo.
Come muoversi?
Proprio perché gli individui con disabilità intellettiva accedono a dei significati diversi circa l’affettività e la sessualità, un buon punto di partenza potrebbe essere quello di mettere in atto anche una vera e propria “educazione emotiva”, anche perché parlare di emozioni, e non direttamente di sessualità, potrebbe aiutare a rompere il ghiaccio. Pertanto sembra fondamentale aiutarli a farsi un’idea concreta (non intuitiva) di quello che gli altri pensano, sentono, provano, a regolare le proprie emozioni e ad imparare le regole e le distanze sociali.
Inoltre potrebbe essere utile porre alcune domande proprio alla persona disabile, per capire da quale punto parte sia nell’ambito delle conoscenze di tipo biologico, anatomico, culturale e sociale, sia circa la consapevolezza delle proprie emozioni a proposito della sessualità, delle sue componenti e delle pratiche relative, per arrivare così a strutturare un intervento su misura.
Conclusioni
Al di là della disabilità, la sessualità è un comportamento appreso, per cui necessita di apprendimento. È a partire dal prendere consapevolezza, sia essa della propria identità, del ruolo di genere e dell’orientamento sessuale, fino all’acquisizione della capacità di stare con gli altri in modo adattativo che avviene questo apprendimento, che non può essere slegato dal contesto in cui si vive e si nutre degli stimoli provenienti dal mondo esterno. Per questo è importante per i genitori e i caregivers non chiudere le occasioni di contatto e le aperture di nuovi contesti.
La sessualità è un diritto per tutti, disabilità o no.
Bibliografia
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